Autolesione del paziente psichiatrico: sì alla tutela contrattuale, ma non per gli stretti congiunti (no al contratto ad effetti protettivi verso terzi).

Rispetto allo stesso paziente psichiatrico, sussiste  responsabilità contrattuale della struttura nel caso in cui – tentato dallo stesso, senza successo, il suicidio – egli agisca per far valere il danno conseguente all’omissione di terapie, precauzioni o accorgimenti, volti ad impedire il compimento di atti autolesionistici.

In questa prospettiva, dunque, va rammentato che, quanto alla responsabilità per omessa vigilanza di una struttura sanitaria nei confronti di persona ospite di un reparto psichiatrico non interdetta nè sottoposta ad intervento sanitario obbligatorio, il rapporto va ricondotto nell’ambito contrattuale, ed in particolare di quel contratto atipico di assistenza sanitaria che si sostanzia di una serie complessa di prestazioni che la struttura eroga in favore del paziente, sia di natura medica che “lato sensu” di ospitalità alberghiera, e di obbligazioni tutte destinate a personalizzarsi in relazione alla patologia del soggetto.

Se – ed in tali termini – deve ritenersi che una struttura ospedaliera risponda, contrattualmente, dei danni dei quali chieda il ristoro lo stesso paziente (che lamenti la mancata adeguata vigilanza sulla sua persona, ed in particolare l’omesso impedimento di atti autolesivi), non altrettanto può dirsi in ordine, invece, in relazione all’iniziativa risarcitoria assunta dai suoi stretti congiunti, per far valere, nelle stesse ipotesi, il danno da menomazione del rapporto parentale, o da perdita dello stesso, particolarmente nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato, soprattutto quello psichiatrico, si risolva in un atto suicidario portato a compimento.

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 8.7.2020, n. 14258

 

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