Il dato testuale è perimetro esterno all’interpretazione: ipse dixit delle Sezioni Unite penali

E’ vero che l’attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel mero esame dei dati testuali, poichè il significato dei termini utilizzati dal legislatore va spesso ricavato da elementi extratestuali. E infatti l’art. 12 preleggi, dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro significato proprio, secondo la connessione di esse, impone di tener conto altresì dell’intenzione del legislatore. In secondo luogo, le leggi, nel disciplinare atti, comportamenti umani e rapporti intersoggettivi, si riferiscono in generale a classi di atti, di comportamenti o di rapporti: spetta all’interprete, di fronte ai singoli casi concreti, decidere se considerare o meno inclusi gli atti, i comportamenti o i rapporti in disamina nella disciplina dettata dalla singola norma. A tal fine l’interprete dovrà utilizzare gli strumenti ermeneutici forgiati da una secolare tradizione dottrinaria e giurisprudenziale, avvalendosi di criteri logico sistematici, attraverso la collocazione della norma nel quadro complessivo del sistema in cui essa si inserisce, onde evitare contraddizioni e istituire opportuni coordinamenti. Uno dei criteri logici certamente utilizzabili dall’interprete è rappresentato dal canone ermeneutico, che viene specificamente in rilievo nella problematica in disamina, lex plus dixit (o minus dixit) quam voluit, che induce a interpretare in senso restrittivo (o ampliativo) una norma, ascrivendo ai termini utilizzati dal legislatore una latitudine semantica più ristretta (o più ampia) di quella enucleabile dal tenore letterale della norma stessa, alla quale viene così attribuito un ambito applicativo più circoscritto (o più vasto). Rimane tuttavia fondamentale il canone ermeneutico in claris non fit interpretatio, il quale prescrive di attenersi, ove la lettera della legge non sia oscura, a una interpretazione fedele al tenore testuale della norma. In questa prospettiva, le Sezioni Unite hanno già avuto modo di chiarire che l’interpretazione letterale della legge è il canone ermeneutico prioritario per l’interprete, sicchè l’ulteriore criterio dato dall’interpretazione logica e sistematica soccorre e integra il significato proprio delle parole, arricchendolo delle indicazioni derivanti dalla ratio della norma e dal suo inserimento nel sistema ma tale criterio non può servire a scavalcare o eludere quello letterale allorchè la disposizione della quale occorra fare applicazione sia chiara e precisa. Del resto, la stessa giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito che il significato della lettera della norma impugnata non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme e dunque impedisce di conseguire in via interpretativa l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre. Anche se deve essere precisato che, se prioritario, nel senso indicato, è l’esame delle connotazioni testuali della norma, tale esame non esonera certo il giudice dalla ricerca di tutti i possibili significati enucleabili dal testo. All’interno di quello che, in ambito civile, è stato indicato come il limite di “tolleranza ed elasticità del significante testuale”, l’interprete deve quindi esplorare a fondo le potenzialità linguistiche della disposizione legislativa, individuando, anche alla luce del sistema normativo in cui è inserita, tutti i possibili coerenti significati autorizzati dal testo. Il dato letterale, dunque, è l’oggetto prioritario dell’attività interpretativa e ne segna il limite “esterno”. Ma il perimetro individuato, per l’interprete, dal limite esterno rappresentato dal dato testuale ben può includere – e spesso include – una pluralità di significati attribuibili al testo della disposizione: pluralità desumibile, ad esempio, dall’intrinseca polisemia dello stesso dato testuale, così come dalla lettura di quest’ultimo nel contesto delineato dal sistema normativo in cui si colloca e dalla disciplina legale dell’istituto di cui la norma è parte. 

La sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione (ai sensi dell’art. 86, comma 1, D.P.R. n. 309 del 1990) non è, sotto tale profilo, appellabile dal pubblico ministero al tribunale di sorveglianza ex art. 680 c.p.p. ma impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 608 c.p.p.

Se, in relazione alla omessa disposizione della misura di sicurezza dell’espulsione, è annullata la sentenza di un tribunale o di un giudice per le indagini preliminari, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p.

Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza del 13.10.2022, n. 38810

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